FURY (2015) - RECENSIONE

È una storia che puzza di morte, normalità e storica realtà, quella che il regista David Ayer porta sul grande schermo con Fury, al cinema dal 3 giugno 2015. Violenza, amore fraterno e sopravvivenza si avvicendano sul campo di battaglia di una Germania nazista giunta in procinto di capitolazione, ma che continua a dar del filo da torcere alla truppe americane, chiamando alle armi persino donne e bambini.
Brad Pitt, interpretando Don Collier, meglio noto come Wardaddy, si cala ancora una volta nei panni di Odino, dominando la scena col suo affascinante sguardo imperterrito, il viso squadrato e sconquassato da cicatrici che luccicano come medaglie al valore e la voce ferma di chi deve portare a termine una missione mortale, eppure sa che il suo esiguo esercito è fatto di uomini: ragazzotti ammassati tra le pareti di un carrarmato, ognuno con i suoi pregi e difetti, ognuno legato a dei valori.
Si potrebbe però affermare che il vero protagonista della pellicola non sia il noto divo di Hollywood, quanto Fury, quel bestione di metallo (uno Shermann con cannone da 76 mm) a cui i soldati rimangono ancorati dall’inizio alla fine. Intrappolati nelle sue viscere passano sopra lo strato di melma e corpi smunti, sferrano colpi di cannone, bevono alcool, si prendono in giro, rimembrano i ricordi e si fanno forza.

Come in tutti gli war movie che si rispettino, anche quello di Ayer spennella una grande fetta di veridicità, traendo direttamente spunto dall’esperienza dei sopravvissuti della seconda guerra mondiale e creando una squadra in cui ogni essere umano può riconoscersi, almeno in parte. Così nell’artigliere Boyd Swan (Shia LaBeuf) si amalgamano l’anima della fede e la mano gelida di un serial killer. Un’interpretazione che a tratti ricorda il cecchino di Salvate il soldato Ryan, ma che in questo caso ci risparmia la teatrale messa in scena di un atto religioso, spingendoci a sondare i meandri di una giustizia vincolata al dovere e al voler vivere.
Trini Garcia (Michael Peña) e Grady Travis (Jon Bernthal) sembrano tasselli posti agli angoli della famiglia combattente. Il primo è un messicano alcolista e magnanimo, la cui bontà viene però infangata da stress e stanchezza, nonché da un dolore che raschia il fondo; il secondo è il classico amante di donne e pallottole, ma anche lui custodisce nel cuore una vibrante nota di religiosità e voglia di protezione.
Tra tutte le personalità messe in gioco, la più in bilico è quella di Norman Ellison (Logan Lerman), una giovane ed inesperta recluta chiamata a sostituire un uomo caduto in battaglia: i suoi occhi trasudanoumanità allo stato puro, la sua mano incapace di sferrare colpi è la dimostrazione lampante di quanto sia ingiusta la ferocia che si scatena tra gli uomini. Norman ha una moralità d’acciaio e una sensibilità da bambino, rispetto a Wardaddy si posiziona sul lato opposto dell’universo, eppure tra i due si instaura un rapporto pari a quello tra padre e figlio. Si direbbe quasi che Wardaddy abbia bisogno di ogni componente del gruppo per compensare la crudità del conflitto.

Tutta la scena è un campo minato, un ammasso triste di bombe e ordini da rispettare, in cui l’unico neo di fratellanza e barlume di tenerezza si realizza tra le mura tedesche, sotto la musica soave di un pianoforte e la voce d’usignolo di una ragazzina. Una specie di ultima cena attraverso la quale per un attimo Don Collier vuole svestirsi dei pesanti panni del comando, facendo finta che sia tutto normale, che la guerra sia solo lì fuori, lontana dal suo mondo e dal suo cuore.
Con Fury David Ayer ci fa vivere 24 ore a ferro e fuoco, ci fa capire quanto sia dura la guerra, ci porta fuori dai libri di storia per gettarci in mezzo al fango, tra i soldati morenti. Nessun eroe, nessun superstite e nessuna religione. Lì, sotto il cielo oscurato dai fumi, ogni essere umano è stato a sua volta vittima e carnefice; è stato il burattino di un immenso sistema fatto di ideali ma, come dice Wardaddy Gli ideali sono pacifici, la storia è violenta.