WOLF CREEK - Stagione 2 - RECENSIONE

Io faccio fatica a crederci, ma dalla prima stagione di Wolf Creek sono passati quasi due anni. Qui da noi la serie basata sul più famoso serial killer del cinema australiano è passata un po’ inosservata. Per chi ha avuto la fortuna di vederla, la sua conclusione non lasciava troppo spazio a un proseguimento della vicenda e allora si è deciso di farne una serie antologica, incentrata ogni volta su delle nuove vittime di Mick Taylor.
La formula adottata dalla serie è la mia preferita in assoluto: pochi episodi (appena sei) per stagione e storie autoconclusive, con lo sconfinato territorio australiano e la ferocia del personaggio interpretato da Jarrat come unici fili conduttori.
Questa seconda stagione vede sempre Greg McLean, infaticabile nel corso del 2017, alla produzione esecutiva e alla regia dei primi due episodi. In totale, tra i il 2016 e il 2017, McLean ha diretto tre film e ha creato questo mostro di serie tv. Sono lontani i tempi in cui bisognava aspettare sei anni tra un suo progetto e il successivo.
Se la prima stagione di Wolf Creek si basava essenzialmente su uno scontro a due tra Taylor e la sua antagonista, unica superstite al massacro di un’intera famiglia, Eve, in questa seconda tornata di episodi gli autori hanno cercato una dimensione più corale: abbiamo infatti un intero pullman carico di turisti provenienti da ogni parte del mondo in partenza per un tour organizzato dell’outback.
Durante una sosta a una stazione di servizio, l’autista del pullman, nonché guida del gruppo, incontra Mick Taylor e ha l’idea infelice di scambiare due parole con lui, finendo per dire qualcosa che al serial killer non piace affatto e mettendo così in moto la sua vendetta.
Taylor si sbarazza rapidamente dell’autista e ne prende il posto, fingendo di essere il suo sostituto. E in effetti  non esiste un cicerone migliore di lui quando si parla di outback. Peccato che il suo scopo sia quello di far fuori i “dannati turisti” uno dopo l’altro, possibilmente facendoli soffrire parecchio. E così se ne va e li abbandona in mezzo al nulla, con il pullman fuori uso e le scorte di cibo dimezzate. Ai poveri turisti toccherà sopravvivere in condizioni proibitive e con in più la presenza invisibile e costante di Taylor che fa partire la stagione della caccia.

Dal preistorico 2005, anno d’uscita del film capostipite, Wolf Creek è  stato contraddistinto da una spietatezza superiore alla media, anche per un genere già spietato di suo come l’horror. E non potrebbe essere altrimenti, dati i luoghi in cui le storie sono ambientate: lande selvagge e inospitali, disabitate per centinaia di chilometri, in cui se ci si perde è come smarrirsi in un oceano di terra e sterpi.
Spietato è Mick Taylor, un individuo a cui manca anche la più elementare forma di empatia nei confronti del prossimo, per cui uccidere è un qualcosa a metà tra un gioco e una rivendicazione della sua identità di maschio australiano puro, in contrapposizione con turisti rammolliti, donne troppo emancipate e “checche” di ogni risma.
In tutta questa mancanza di pietà, tuttavia, Wolf Creek spicca su altri survival horror di ogni latitudine per una cura particolare nel mettere in scena personaggi credibili, che non fossero ridotti al semplice status di vittime di turno, ma che avessero un loro arco narrativo, una loro dignità, che combattessero a lungo prima di soccombere alla superiorità fisica e strategica di Taylor.
Uno dei dubbi legittimi di fronte a questa seconda stagione era se, con un numero di personaggi superiore a tutti e i due film e alla prima stagione messi insieme, sarebbe stata mantenuta questa efficacia nella caratterizzazione, perché quando hai una quindicina di persone destinate, chi prima e chi poi, a morire male, dare a tutte loro un’individualità specifica è complicato, quasi impossibile.
Ecco, ciò che stupisce della seconda stagione di Wolf Creek è proprio che ogni essere umano sul pullman è importante, anche quelli che muoiono subito dopo il primo assalto di Taylor e, di conseguenza, veder morire ognuno di loro è doloroso.
Poi sì, ci sono quelli più simpatici e quelli meno simpatici, quelli appena abbozzati perché non c’è il tempo materiale di approfondirli, quelli più vicini allo stereotipo e quelli più distanti, ma tutti riservano delle sorprese, e tutti meritano la nostra compassione, a prescindere dal minutaggio loro assegnato. Oddio, non proprio tutti, ma se mi dilungo oltre, entro nella pericolosa zona degli spoiler.

Il prestare una tale attenzione alla costruzione dei personaggi è la base di una solida storia dell’orrore: la seconda stagione di Wolf Creek si fa perdonare un paio di forzature e incongruenze della gestione delle varie forze in campo. Più di tutte le altre vicende legate all'universo del celeberrimo cratere, questa è un survival in piena regola. I turisti abbandonati nel deserto australiano non sono solo alla mercé di Mick Taylor, ma anche di una natura inospitale, del freddo, della fatica, della fame e della sete. Non essendoci volti noti, a parte quello di Jarrat, nel cast, risulta davvero complicato prevedere chi riuscirà a cavarsela e chi invece soccomberà. E ci saranno delle sorprese: personaggi su cui si aveva l’impressione di poter fare affidamento non dureranno un episodio, mentre altri, all'apparenza “deboli” resisteranno molto più a lungo del dovuto.
Dando per scontato (siamo in Wolf Creek) che con Taylor non vince mai nessuno, la serie prova e esprimere un concetto in netta controtendenza con i survival canonici: abbandonare la propria umanità e l’empatia nei confronti dei propri compagni di sventura non è garanzia di sopravvivenza, anzi. L’annosa questione di quanto e fino a che punto rinunciare alle prerogative che ci rendono esseri umani per portare a casa la pelle viene risolta, senza inutili didascalismi, facendo una scelta precisa su quali personaggi eliminare subito e quali portarsi dietro fino alla fine.
Vale la pena fermarsi per celebrare un “funerale” anche se questo ci rallenta e ci espone? Sì, vale la pena. E vale la pena tornare indietro per salvare un’altra persona, anche se per farlo dobbiamo entrare nell’antro del mostro? La risposta è affermativa anche in questo caso.
Mettendo al centro della narrazione dilemmi del genere, l’alterità di Taylor rispetto alle sue vittime spicca ancora di più. Se mai nella mia vita ho odiato un personaggio cinematografico e televisivo, quello è stato Mick Taylor. 
Odiato e temuto, perché l’assassino dell’outback rappresenta un abisso in cui, a guardarci bene, trovi soltanto il vuoto. Il tentativo di umanizzazione della precedente stagione, con quel lungo flashback dedicato alla sua infanzia, si era rivelato in realtà un colpo di coda beffardo, perché Taylor (ora forse dovremmo averlo capito) non è umano. È un cataclisma; come dico gli aborigeni, è uno spirito malvagio che infesta l’outback e, in quanto tale, non può morire. È un tutt’uno con il paesaggio in cui si muove silenzioso e letale. E, se il caso volesse farci finire tra le sue grinfie, l’unica cosa che potremmo fare è cercare di preservare un briciolo di dignità che ci renda diversi da lui.


Titolo: Wolf Creek
Genere: orrore, thriller
Episodi: 6
Durata episodi: 43-61 minuti
Trasmissione italiana: inedita