ALBERT E IL DIAMANTE MAGICO (2015) - RECENSIONE

Nella cittadina immaginaria di Kalleby nasce il piccolo Albert. La notizia è ordinaria per tutti, ma straordinaria per gli entusiasti genitori che festeggiano ogni gesto del bimbo come un trionfo e che scambiano atteggiamenti di normale esuberanza infantile per una scintilla di genialità. Albert cresce come un Giamburrasca moderno sregolato e sfacciato, temuto per le proprie burle e per i continui danni provocati in giro per il paese. Ma se Giannino Stoppani era ostacolato e represso da una famiglia troppo severa e insensibile ai bisogni dell’infanzia, questa coppia di genitori è invece sbilanciata nel senso opposto. In compagnia dell’inseparabile amico fraterno Egon, il ragazzo decide di lasciare la propria casa per realizzare il suo più grande sogno: diventare un capitano di mongolfiera.

La storia è ambientata a Kalleby, località inventata dal regista Karsten Kiilerich ispirandosi alle cittadine di provincia della Danimarca. Kiilerich si è affidato ai suoi ricordi d’infanzia, quando durante le lunghe estati danesi giocava lungo il ruscello vicino a casa.
Ispirato al romanzo per ragazzi di Ole Lund Kirkegaard, il film di Karsten Kiilerich, pur rispettandone i personaggi, lo spirito e parecchie situazioni, scombina e ingrassa il testo di partenza per andare incontro ai tempi del lungometraggio e non solo. Scritto nel 1968, il racconto danese è quello di un piccolo Gianburrasca d’altri tempi, nel caso specifico tempi più ingenui, ma anche meno politicamente corretti e, soprattutto, tempi nei quali i ragazzini godevano di una libertà oggi impensabile. La bravata in solitaria di Albert viene ora dunque motivata a tutti i costi, attutita dalla complicità con il più temperato Egon (che nel libro non parte ma resta ad attendere l’amico a Kalleby) e con la ragazzina gitana, spolverata di magia grazie alla sfera di cristallo di una veggente: in buona sostanza, normalizzata.

Per quanto i limiti esistessero in partenza, perché Albert non è Pippi Calzelunghe, e non gli si avvicina nemmeno, l’adattamento cinematografico non riserva sorprese né sul fronte visivo né su quello narrativo. Il protagonista è un Pinocchio dai capelli rossi, che cade nelle mani di Rapollo/Mangiafuoco e dei suoi due bravi (Tonto e Gonzo, giusto per non lasciar nulla alla fantasia) ma, anziché rassegnarsi a vittima, agisce come divertito artefice della propria avventura da monellaccio dal cuore d’oro.
Pur trattandosi di confronti insostenibili, nello stesso anno in cui la Pixar propone al suo pubblico un viaggio rocambolesco nelle emozioni contrastanti che presiedono al comportamento di una ragazzina in un momento di crisi (Inside Out), si vede bene come il soggetto di Albert e il diamante magico si situi piuttosto fuori dal tempo e, legittimamente, dall’interesse di molti.

Il regista danese Karsten Kiilerich porta al cinema le avventure di Albert (libro per ragazzi di Ole Lund Kirkegaard pubblicato nel 1968) a distanza di ben quasi 50 anni dalla loro ideazione. Un piccolo film d’animazione dalla grafica semplice ma accattivante che sembra, suo malgrado, non riuscire a trovare una sua incisività narrativa. E quelle piccole avventure che a volte riescono a diventare grandi nei film d’animazione più riusciti, qui sembrano invece restare piccole, incapaci forse di trovare un modo per trasformarsi in qualcosa di più delle loro semplici aspirazioni.

Albert non contempla nessun momento indimenticabile. La sceneggiatura procede troppo tranquillamente senza scosse; le sequenze in cui il piccolo Albert viene presentato lasciano immaginare uno sviluppo totalmente diverso, poco coerente con gli avvenimenti successivi. I dialoghi, spesso banali, e lo stratagemma non troppo astuto di raccontare ciò che non vediamo attraverso una sfera di cristallo, e non – per esempio – attraverso le reazioni dei personaggi, degli indizi o delle situazioni da cui dedurre, piuttosto che vedere, non possono che suggellare un giudizio davvero magro. Non sappiamo come fosse il testo di partenza e non lo giudicheremo: ci accontentiamo di non apprezzare molto la trasposizione poco lusinghiera del racconto.