Tradotto più o meno letteralmente dall’inglese, Backcountry indica un'“area remota”, un luogo lontano e difficilmente raggiungibile. L’indicazione è quella dello scenario in cui si svolge la vicenda allucinante del film diAdam MacDonald: le foreste canadesi che si estendono fin dove l’occhio è in grado di spingersi e che cancellano l’orizzonte in un Oceano di 50 sfumature di verde. Nella Natura la condizione primigenia è quella della guerra. Le visioni concilianti e pacificatorie, tra l’Uomo e il suo habitat, non fanno parte del corredo cromosomico di film come questo di MacDonald. Come milioni di anni fa, quando i nostri antenati si prostravano ad adorare l’Orso, il grande Plantigrado, come ipostasi della divinità , ancora oggi la bestia delle foreste incute in coloro che vi si imbattono un terrore che è quasi uno sgomento sacro prima che la paura irrazionale e selvaggia che provavano gli uomini delle caverne fissando lo sguardo dei suoi occhi neri e senza luce. Perché l’orso non ha sentimenti o perlomeno i suoi occhi non sembrano trasmetterne. La sua forza è la sua totale imprevedibilità : Alberto Cavallone parificava il modo di guardare dell’orso a quello del maiale: occhi che fissano cose che sembrano trascendere questo mondo e puntare diritti e insondabili sull'ignoto.
Bisogna fare queste riflessioni su Backcountry, perché non ci troviamo di fronte a un eco-vengeance come tanti dove la bestia aggredisce l’uomo per ristabilire un disequilibrio o per vendicare un’offesa arrecata all’ambiente. E non siamo nemmeno di fronte all’opzione che trionfava nel classico di Hitchcock Gli uccelli, dove l’aggressione animale pareva giustificarsi nel sottofondo di qualcosa di apocalittico, di una nemesi cosmica che la Natura stava mettendo in atto contro l’Uomo. MacDonald piazza i propri protagonisti (Missy Peregrym e Jeff Roop) nell’esattezza di un contesto primordiale o primigenio, li contestualizza in un’area remota dove non esistono più sovrastrutture di alcun genere. Li fa perdere in quell’immensità , li leva dallo spazio e dal tempo lineari e li proietta nel ritmo ciclico e mitico della Natura. Poi aspetta di vedere che cosa succede. Il film possiede la forza dirompente di una reazione chimica ben riuscita perché gli elementi che vengono fatti interagire sono veri più che semplicemente verosimili: un uomo e una donna ridotti in uno stato di necessità primordiale, sperduti, assetati, affamati, impauriti; e una bestia che vive anch’essa nella primordialità del bisogno e segue quindi il proprio istinto. Che gli impone di uccidere e di sfamarsi. Questa riduzione di tutto ai minimi termini è ciò che rende Backcountry direttissimo ed efficace nella violenza sanguinaria che a un certo punto deflagra con la potenza di una granata e senza nessuna reticenza da parte di MacDonald, che è lì pronto ad incassare tutta la forza conseguente alle potenti premesse che aveva posto.
L’impressionante energia sanguinaria che si sprigiona durante il primo attacco dell’orso resta qualcosa di ineguagliato nella storia più recente dell’eco-vendetta: gli effetti dello strazio arrecato dalle unghiate e dalle fauci del grizzly andranno a finire nei manuali, perché sono realmente una qualità raggiunta del film, impressionano e scioccano ma non solo. Riportano qualunque possibile spinta astratta o mistica o ideale alla spietata e semplice legge della Natura, alla carne, alla materia. Che non si tratti solo di obiettivi attinti in maniera casuale e che quindi esista un disegno nel discorso in qualche maniera filosofico di Backcountry, lo dice l’intero sviluppo della storia. Che parte sull’equivoco dell’incontro dei due protagonisti con un maschio alfa che potrebbe spingere a pensare a uno sviluppo differente della faccenda, come se la minaccia dovesse arrivare da quel misterioso personaggio con il quale la protagonista si mette a flirtare e che calamita la gelosia del suo partner. Si tratta di un’operazione di depistaggio che MacDonald si prende tutto il tempo necessario per sviluppare, svelando quindi che il rischio, il pericolo, la spada di Damocle appesa sulle teste dei due gitanti non ha niente a che vedere con altri esseri umani, ma la sguaina il mondo che li sta ingoiando nel verde e verso il quale procedono con fiducia.