La software house nipponica Capcom è tra le più storicamente importanti, e questo è indubbio. Dopo aver prodotto numerosi e popolarissimi action game negli anni '80-90 come Bionic Commando e la serie di Megaman, ha trovato la sua fortuna nei giochi di combattimento, che fossero beat'em up a scorrimento come Final Fight e Captain Commando o picchiaduro 1vs1 come Street Fighter, forse la più celebre tra le sue produzioni. Ma c'è un altro franchise Capcom noto -e spesso idolatrato- in tutto il mondo: quello di Bio Hazard, altrimenti conosciuto, in Occidente, come Resident Evil.
Quando uscì, nel 1996, sulla prima PlayStation, fu una piccola rivoluzione: insieme a Metal Gear Solid della rivaleKonami, rivoluzionò di fatto l'approccio ai giochi d'azione, con un utilizzo funzionale e integrato degli ambienti 3D nelle meccaniche di gioco e un'altissima dose di cinematograficità , allora in fase pienamente sperimentale nell'industria videoludica. L'impatto che il gioco ebbe sul mondo videoludico fu notevole: giochi con la stessa tematica ne erano stati creati già prima (dallo Sweet Home della stessa Capcom ad Alone in the Dark), ma solo da RE in poi, de facto, saranno considerati come un genere a sé stante, denominato Survival Horror.
Era solo questione di tempo prima che il mercato cinematografico mettesse le mani su un potenziale blockbuster come quello delle (dis)avventure dei vari Chris, Jill, Leon e Claire alle prese con zombie, mutazioni genetiche e complotti per conquistare il mondo: e difatti, nel 2002, il film su Resident Evil diventa realtà . Non per mano del maestro del genere zombie George Romero, come a lungo, e invano, sperato dai fan, ma grazie a Paul S.W. Anderson, giovane e attento regista di pellicole d'azione, fautore tra l'altro nel 1995 della bella trasposizione su celluloide di Mortal Kombat, icona -nel bene e nel male- del gaming videoludico anni '90.
L'elemento in comune fra la saga cinematografica e quella videoludica di Resident Evil, il filo conduttore, è l'Umbrella Corporation: una multinazionale i cui prodotti sono in tutte le case, e vista come una delle società più avanti nella ricerca di soluzioni che permettano di migliorare la vita dell'uomo. La verità è che dietro la facciata si nasconde una lobby senza scrupoli, che conduce segretamente esperimenti genetici e batteriologici al di fuori di ogni etica e morale per puro tornaconto personale. Mentre nei videogiochi Capcom fa scoprire gli orrori delle macchinazioni Umbrella tramite ambientazioni spaventose mutuate dalla cultura horror cinematografica americana degli anni '80 (e i riferimenti non sono solo a Romero), Anderson decide per un approccio ben più fantascientifico, rendendo la magione protagonista del primo gioco nient'altro che un simulacro per la vera sede dell'azione, il futuristico Alveare nel quale vediamo la nostra eroina Alice muoversi agilmente e con fare deciso e mortale. Forse ancora più schockante del cambio dell'ambientazione è proprio il cambio del protagonista: Anderson mantiene solo alcuni elementi di plot e personaggi, ma rielabora tutto a modo suo, scartando i protagonisti Chris Redfield e Jill Valentine in favore di un personaggio di nuova concezione, Alice, per l'appunto, interpretato per l'occasione dalla Milla Jovovich che in tante altre prove aveva dato la dimostrazione di essere degna erede del -raro- prototipo femminile dell'action hero visto in Alien o in Tomb Raider, altra saga di derivazione videoludica. Anderson segna così il punto del successo commerciale, spiazzando tuttavia pubblico dei fan del videogioco originale e critica, che si ritrova davanti un film meta-genere (in bilico fra azione, horror, thriller e fantascienza) ben realizzato nonostante i pochi mezzi e appassionante, ma in sé distante dalla fonte di ispirazione originaria.
Tanto che per il capitolo successivo, non più diretto ma solo sceneggiato da Anderson, questi farà marcia indietro, omaggiando il videogioco con le stesse atmosfere, visuali e persino meccaniche di svolgimento della saga in versione interattiva. E dopo un terzo episodio piuttosto scialbo e mal realizzato, eccoci infine alla quarta incarnazione del franchise, probabile inizio di un nuovo ciclo di storie.
Dopo essere riuscita a mettere in salvo quel che restava della carovana di sopravvissuti guidata da Claire Redfield (Ali Larter) e Carlos Oliveira nel terzo episodio, Alice (Milla Jovovich) aveva liberato un piccolo esercito di suoi cloni dalla base nordamericana della Umbrella, giurando vendetta. Vendetta che non tarda ad arrivare: bella e letale come non mai, si dirige in Giappone alla ricerca di Albert Wesker (Shawn Roberts) e degli altri alti dirigenti della mega-corporazione, inseguendo anche lei il sogno di potersi affrancare, un giorno, dalle fatiche nella misteriosa terra di Arcadia verso cui si sono diretti i suoi amici. Ma la Umbrella ha in serbo per lei ben altri progetti.
Impossibile raccontare altro del film senza spoilerare qualcosa, ma dubito che qualcuno di voi non l'abbia visto; la struttura del film di Anderson procede tramite numerosi (ma ahinoi prevedibili) colpi di scena, e la stessa preannunciata presenza di personaggi quali -finalmente!-Chris, Jill e Claire va vissuta direttamente su schermo, piuttosto che raccontata.
Per prima cosa c'è da annotare come Anderson non voglia mai essere uguale a sé stesso, ma nel farlo utilizza sempre i “soliti” trucchetti di sceneggiatura, cambiando le carte in tavola a ogni film a uso e consumo della situazione contingente. E' oramai chiaro che manca una visione d'insieme delle avventure della sua eroina, e ad ogni capitolo la sceneggiatura va a braccio, riprendendo gli elementi più utili o interessanti dei precedenti capitoli e liberandosi della “zavorra” con semplici espedienti volti a rivitalizzare o riequilibrare di volta in volta personaggi e situazioni. E' successo nei capitoli precedenti, succede anche in questo e, ne siamo certi, capiterà anche nei successivi: dopotutto, i suoi agganci per eventuali seguiti hanno ormai fatto storia.
L'atmosfera, quantomeno, dopo l'azzardato setting proto-madmaxiano di Extinction, torna ad essere più vicina a quella della serie, con numerosi rimandi e prestiti, e restituendoci finalmente il tanto atteso Chris Redfield, che ha qui le fattezze del Wentworth Miller del celebre serial Prison Break.
Proprio a proposito di Prison Break, fa decisamente sorridere vederne il protagonista rinchiuso nuovamente in cella ma in tutt'altra situazione, assicurando che lui “conosce un modo per scappare”. Anderson gioca a fare il citazionista e i rimandi ad altre pellicole sono palesi, da un lapalissiano omaggio a Matrix fino al gustosissimo mini-remake di Ultraviolet rappresentato dalla scena nipponica di inizio film. Ma, dopo l'allegoria di Alice nel paese delle meraviglie del primo film e il “finish him!” del secondo, che voleva ricordare Mortal Kombat, qui troviamo anche rimandi a classici più o meno moderni del videogioco, da Devil May Cry fino ad arrivare, a ritroso, aLemmings e Pitfall. Da parte di uno che ha dichiarato “Resident Evil è per me sempre un parco giochi. Per giocare ai primi due videogiochi sono scomparso per un mese, riemergendone con una barba lunghissima” non ce ne stupiamo, in fondo.
Purtroppo, al di là del gioco citazionistico, delle belle scene d'azione e di un paio di interpretazioni riuscite (su tutte quella dellaLarter, eccellente stavolta nelle scene di combattimento), il film si presenta come eccessivamente pretenzioso, con falle piuttosto vistose nella sceneggiatura e nelle semplici situazioni vissute dai personaggi, chiaramente -e fastidiosamente- pretestuose. Non ci si aspettava certo un capolavoro a livello di sceneggiatura, ma quantomeno un po' di quella coerenza che dovrebbe derivare da uno script così laboriosamente steso in anni di studio di situazioni e personaggi. Quando invece, purtroppo, a dispetto della tecnica 3D con cui è realizzato il film, è tutto molto bidimensionale e piatto, a partire dalla caratterizzazione dei personaggi, a cui un buon acting può sopperire solo fino ad un certo punto.